Con sentenza n. 7291 del 17 giugno 2021, il T.A.R. Lazio Sezione Seconda bis ha stabilito l’illegittimità del provvedimento oltre termine che dispone l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria, sia per violazione dell’art. 21 novies comma 1 L. n. 241/1990 a seguito della mancata osservanza da parte dell’Amministrazione del termine ragionevole per l’esercizio del potere di autotutela, che per violazione del comma 2 bis del medesimo articolo, in considerazione della insufficienza della deroga fissata per tale termine nel caso di dichiarazioni non veritiere. Analizziamo insieme ad un team di avvocati esperti nel settore dell’edilizia ed urbanistica l’annullamento del provvedimento oltre termine.
Nella fattispecie, i soggetti ricorrenti proponevano ricorso per chiedere l’illegittimità del provvedimento che, a seguito del procedimento iniziato con la richiesta da parte loro di un’istanza di rettifica del titolo edilizio, annullava la concessione edilizia in sanatoria.
Tale provvedimento sarebbe intervenuto ventidue anni dopo l’emissione dell’atto di sanatoria.
Inoltre, essi sostenevano la loro estraneità all’istanza di sanatoria e alle eventuali dichiarazioni non veritiere in essa contenute, in qualità di semplici aventi causa dal precedente proprietario dell’immobile, presentatore dell’istanza di condono. Dunque, non destinatari dell’atto di concessione del titolo, avendo acquistato l’immobile a notevole distanza di tempo, ovvero nel 2015, rispetto all’intervenuto rilascio della concessione edilizia in sanatoria avvenuto nel 1999.
Ciò posto, il potere di autotutela costituisce un paradigma normativo i cui presupposti possono rivestire sia carattere sostanziale come l’interesse pubblico attuale e la valutazione dell’affidamento, che temporale estrinsecantesi nel c.d. termine ragionevole.
Entrando nel merito della questione il T.A.R Lazio ha affermato, sulla base della giurisprudenza amministrativa, che per quanto riguarda il termine ragionevole “(…) la “ragionevolezza del tempo di intervento costituisce un imprescindibile elemento di valutazione della correttezza dell’operato della pubblica Amministrazione, tant’è che se ne impone la coniugazione con la esigibilità della “correzione” stessa, ragione per cui è del tutto congruo che il termine per l’annullamento d’ufficio (nella sua dimensione ‘ragionevole’) decorre soltanto dal momento in cui l’Amministrazione è venuta concretamente a conoscenza dei profili di illegittimità dell’atto.
Ne consegue che un’immotivata e protratta inerzia, seguita da un improvviso e ingiustificato revirement connota di sicura negatività la valutazione del tempo trascorso, a maggior ragione ove davvero considerevole” (cfr Cons. St. Sez. II, 14.12.2020 n. 8004).
Al fine di poter meglio comprendere la questione sottoposta al nostro esame, il già citato articolo 21 novies della L. n. 214/1990, statuisce al comma 1 che “il provvedimento amministrativo illegittimo adottato in violazione di legge o viziato da eccesso di potere o da incompetenza può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici (…) e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
In seguito alla modifica apportata alla predetta legge dalla L. 7 agosto 2015 n. 124 “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche” il legislatore ha previsto che il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione dei vantaggi economici”.
“Il superamento del rigido termine di diciotto mesi – entro il quale il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, è consentito:
a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale;
b) sia nel caso in cui l’erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco” (T.A.R. Roma, (Lazio) sez. I, 21 marzo 2022 n.3209.
Al riguardo, è evidente che nel formulare la predetta disposizione il legislatore ha utilizzato una formula elastica dalla quale emerge che sebbene il potere della p.a. non sia sottoposto ad alcun termine prescrizionale, ciononostante, il suo esercizio deve tenere conto della crescente rilevanza che, nel tempo, possono assumere le posizioni giuridiche private sacrificate da un eventuale e pregiudizievole annullamento.
Il concetto di “termine ragionevole”, quale condizione per l’esercizio del potere di annullamento in autotutela, in riferimento ai provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, subisce così il passaggio da una dimensione temporale indeterminata ed elastica ad una dimensione espressa e rigida.
Nel caso che a noi interessa, per la particolarità della situazione appare evidente che il provvedimento in esame avrebbe dovuto essere assistito sul punto da una congrua motivazione, che desse conto delle ragioni del notevolissimo ritardo da parte dell’Amministrazione a disporre l’annullamento d’ufficio, anche in relazione all’effettuazione del giudizio di bilanciamento tra l’interesse dei ricorrenti, proprietari di buona fede, alla conservazione della regolarità del loro immobile e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata. Non contiene in realtà alcuna argomentazione al riguardo.
Strettamente connesso all’aspetto appena evidenziato, è quello per cui l’annullamento d’ufficio deve essere esercitato «tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati».
Sul punto, si deve evidenziare che il legislatore non considera il profilo soggettivo del soggetto interessato al mantenimento del provvedimento amministrativo, sicché l’art. 21-nonies comma 1 non si occupa dell’eventuale mala fede del destinatario del provvedimento da annullare. La giurisprudenza, tuttavia, tende ad operare una valutazione unitaria dell’interesse pubblico, del tempo decorso dall’adozione del provvedimento nonché dell’elemento soggettivo del destinatario.
Il comma 2 bis dell’articolo in esame statuisce che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1 (..)”.
Le dichiarazioni eventualmente non veritiere richiamate dal suddetto comma riguardano le “false rappresentazioni dei fatti” o “dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci”, ovvero qualsiasi condotta di falso, a prescindere dall’oggetto materiale su cui essa ricade e purché mediante la stessa si sia ottenuto il provvedimento autorizzativo o attributivo di benefici. La disposizione mira a contemperare le esigenze di certezza del diritto con la necessità di reprimere condotte costituenti reato, eliminandone così i vantaggi indebiti.
Nel caso che a noi interessa tali dichiarazioni non sono riconducibili in alcun modo alla responsabilità dei ricorrenti, che, a differenza di quanto erroneamente sostenuto dall’Amministrazione Comunale nel provvedimento, non erano i destinatari del condono, avendo acquistato l’immobile a notevole distanza di tempo ovvero ben sedici anni dopo l’intervenuto condono.
Al contrario tale provvedimento appare privo di alcuna argomentazione al riguardo, essendo anzi inficiato, come detto, anche dall’errata ricostruzione del ruolo rivestito nel procedimento di condono dai ricorrenti, in realtà, estranei all’istanza di sanatoria e alle eventuali dichiarazioni non veritiere in essa contenute e non destinatari dell’atto di concessione del titolo.
D’altro canto, non è possibile in ogni caso, giustificare l’enorme ritardo nel provvedere in autotutela con la circostanza di aver appreso, al momento della richiesta di rettifica del titolo edilizio da parte dei ricorrenti, il carattere mendace delle affermazioni contenute nell’istanza di sanatoria.
I sopra rilevati elementi di criticità, se opportunamente valorizzati dagli Uffici che li avevano acquisiti, avrebbero dovuto ragionevolmente condurre l’Amministrazione a negare, se del caso, la sanatoria, o quantomeno determinare un tempestivo esercizio del potere di autotutela, non configurabile ad oltre 20 anni dal rilascio del condono.
In conclusione, tali specifiche circostanze hanno indotto il T.A.R. ad accogliere il ricorso dichiarando l’illegittimità del provvedimento che aveva disposto l’annullamento della concessione edilizia in sanatoria, ritenendo sia l’evidente mancato rispetto del termine ragionevole per l’esercizio del potere di autotutela da parte della pubblica Amministrazione, che l’omessa considerazione del legittimo affidamento delle parti ricorrenti in considerazione del lungo tempo trascorso dal rilascio del condono, oltre al fatto che le dichiarazioni eventualmente non veritiere non erano a loro in alcun modo riconducibili.