
Di recente la Corte di Cassazione con una “rivoluzionaria” sentenza (n. 45280/2024) è intervenuta sulle misure di prevenzione disposte dal Codice antimafia, introducendo rilevanti novità che, qualora recepite, potranno condurre verso l’armonizzazione del sistema di prevenzione italiano con i principi del diritto convenzionale europeo.
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Misure di prevenzione del Codice antimafia: la pericolosità sociale
Con la citata sentenza, la Corte di Cassazione torna a parlare di pericolosità sociale evidenziando la necessità di delimitarla temporalmente al fine di poter valutare correttamente la correlazione tra l’acquisizione di beni illeciti e l’attività criminosa del soggetto.
In altri termini, a dire della Corte, è necessario individuare sia un dies a quo affidabile, ovvero un punto di partenza chiaro nel tempo, per poter ricostruire una continuità nelle condotte illecite, che una sequenza e cioè un nesso temporale tra pericolosità ed acquisizione dei beni capace di provare che tali beni siano stati acquistati grazie ai proventi illeciti.
La pericolosità sociale non deve essere episodica o sporadica, ma deve caratterizzarsi per un’abitualità nei reati, commessi in un arco temporale non esiguo. Questi reati devono aver rappresentato una fonte di reddito significativa per il soggetto, giustificando così la presunzione che i beni siano frutto dell’attività illecita.
Misure di prevenzione del Codice antimafia: l’autonomia del Giudice della prevenzione rispetto al Giudice penale
La sentenza in esame affronta altresì il delicato tema dell’autonomia del Giudice della prevenzione rispetto al Giudice penale e dei limiti entro cui il Giudice della prevenzione può valutare fatti già accertati in sede penale.
La Cassazione afferma che il principio di autonomia del giudizio di prevenzione non può prevalere sulle sentenze assolutorie in sede penale. Questo significa che un fatto escluso dal giudice penale non può essere successivamente utilizzato come indizio di pericolosità sociale nella procedura di prevenzione.
Tradizionalmente, una parte significativa della giurisprudenza ha minimizzato tali limiti, ritenendo che i due giudizi (penale e di prevenzione) siano autonomi e possano basarsi su valutazioni differenti degli stessi fatti.
In tal senso, la novità rilevante introdotta dalla Corte è il richiamo esplicito all’art. 6, comma 2, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), il quale sancisce che il diritto alla presunzione di innocenza impedisce che un fatto, se già escluso in sede penale, possa essere poi considerato elemento indiziante nel giudizio di prevenzione.
Nel valutare l’applicabilità del predetto articolo in un procedimento successivo connesso a uno penale e conclusosi con assoluzione, non entra in gioco solo il divieto di doppio giudizio (ne bis in idem), ma anche il principio di non contraddizione, pilastro dell’ordinamento giuridico. Dunque, non si può essere assolti per un fatto ritenuto insussistente e contemporaneamente essere considerati socialmente pericolosi sulla base della sussistenza dello stesso fatto.
Al fine di motivare le proprie ragioni, la Cassazione richiama la sentenza Rigolio c. Italia della Corte EDU (marzo 2023), ribadendo il valore della presunzione di innocenza sia sul piano endoprocessuale (che impone al giudice di non partire da preconcetti sulla colpevolezza) che su quello extraprocessuale (vietando alle autorità di trattare come colpevole un soggetto assolto o non imputato).
In definitiva, se il Giudice penale ha emesso una sentenza assolutoria, il Giudice della prevenzione non può utilizzare quello stesso fatto per sostenere la pericolosità sociale del soggetto.
Alla luce di quanto rilevato appare evidente come la pronuncia in esame costituisca o comunque possa segnare un possibile cambio di orientamento nella giurisprudenza, rafforzando le garanzie di chi è sottoposto a misure di prevenzione.
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