Con sentenza n. 2273 del 28 marzo 2022, il Consiglio di Stato sez. VI, ha stabilito che la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria in sostituzione a quella demolitoria, così come stabilito dall’art. 34 del D.P.R n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) è applicabile solo agli abusi meno gravi riferibili all’ipotesi della parziale difformità dal titolo abilitativo (in ragione del minor pregiudizio causato all’interesse urbanistico) e dell’annullamento del permesso di costruire (in ragione della tutela dell’affidamento che il privato ha posto nel titolo edilizio a suo tempo rilasciato e, poi, fatto oggetto di autotutela e della circostanza che l’opera è stata costruita comunque sulla base di un provvedimento abilitativo).
Viceversa, con riferimento alle ipotesi di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, la sanzione della demolizione e della riduzione in pristino rimane l’unica applicabile, quale strumento per garantire l’equilibrio urbanistico violato.
Nella fattispecie, l’appellante dopo aver realizzato opere finalizzate alla trasformazione di un immobile da deposito attrezzi agricoli ad abitazione (ivi comprese due piattaforme in cemento esterne all’edificio) con modifica della destinazione d’uso, della superficie e dei volumi, riceveva l’ordine di demolizione.
L’appellante, pur avendo ottenuto il permesso di costruire sebbene relativo alla costruzione di un piccolo fabbricato rurale per attrezzi agricoli, aveva tuttavia realizzato una maggior superficie ed una maggior altezza, e quindi anche una significativa maggiore volumetria.
Il provvedimento che autorizzava l’ordine di demolizione era motivato con riferimento alle NTA comunali, che consentivano la realizzazione di edifici residenziali in zona agricola ai soli imprenditori agricoli, qualità di cui l’appellante non sarebbe stato in possesso.
Sennonché, il T.A.R. Piemonte avanti al quale veniva impugnato il suddetto provvedimento, con cui il ricorrente chiedeva l’annullamento sia dell’ordine di rimuovere siffatte opere che l’annullamento del provvedimento con cui era stata respinta l’istanza di sanatoria ex art. 36 del D.P.R. n. 380/2001, relativa alle medesime, nonché l’annullamento o la disapplicazione dell’art. 14, lett. d), delle vigenti N.T.A, respingeva il gravame.
In sostanza, il T.A.R. respingendo il gravame, rilevava la legittimità dell’ordine di demolizione nella parte in cui includeva le opere in cui si era compendiato il cambio di destinazione d’uso (e nella parte in cui includeva le due piattaforme in cemento esterne all’edificio) oltre alla legittimità del termine di trenta giorni, fissato dall’Amministrazione per il ripristino dello status quo ante ai sensi dell’art. 21 octies comma 2 della L. n. 241/90.
La decisione sulla istanza di sanatoria non avrebbe potuto essere differente alla luce della constatata legittimità dell’art. 14, comma 2, lett. d) delle NTA e la conseguente legittimità del diniego di sanatoria, poiché l’interessato non sarebbe stato titolare di una impresa agricola.
Nel giudizio di secondo grado, qui in commento, l’appellante richiedeva l’integrale riforma della pronuncia del T.A.R. Nel respingere l’appello, come già evidenziato dal Giudice di primo grado, i Giudici di secondo grado, hanno osservato che la decisione sulla legittimità dell’ordinanza di demolizione trova piena conferma nel già richiamato art. 14, comma 2, lett. d) delle NTA con conseguente legittimità del diniego di sanatoria, atteso che l’appellante interessato non sarebbe stato titolare di alcuna impresa agricola.
Per la Regione Piemonte, l’art. 25 della L.R. n. 56/77 stabilisce, al comma 3, che hanno titolo per edificare residenze rurali gli imprenditori agricoli professionali nonché quelli non professionali che però abbiano il domicilio o la residenza nella azienda interessata: si tratta di una norma che, all’evidenza, circoscrive la cerchia dei soggetti legittimati a chiedere il rilascio del titolo edilizio necessario a realizzare, in zona agricola, una unità immobiliare ad uso residenziale, e che risulta comunque applicabile anche se non espressamente recepita nei singoli piani regolatori; essa fonda la legittimità di tutte le norme, contenute in singoli strumenti urbanistici, che ne recepiscano espressamente il contenuto, e nello stesso tempo determina l’illegittimità delle eventuali previsioni che, invece, consentano espressamente, anche a coloro che non siano imprenditori agricoli, di realizzare residenze in zona rurale, sia pure con obbligo di corrispondere gli oneri di costruzione.
Considerazioni che a giudizio del Consiglio di Stato non ravviserebbero alcuna incostituzionalità, per contrasto con norme statali, dell’art. 25 della L.R. Piemonte n. 56/77: ciò proprio per il fatto che le norme statali non ostano alla adozione di norme regionali o locali che limitino la legittimazione alla richiesta di un titolo edilizio con la finalità di assicurare il rispetto delle previsioni di zona evitandone l’elusione.
In particolare, il carattere generale degli artt. 11 e 17 del D.P.R. n. 380 del 6 giugno 2001, relativi al permesso di costruire e alla riduzione o all’esonero dal contributo di costruzione, non impediscono l’adozione di norme regionali o locali che limitino la legittimazione alla richiesta di un titolo edilizio, con l’obiettivo di assicurare il rispetto delle previsioni di zona evitandone l’elusione.
Le norme di attuazione di uno strumento urbanistico specificano eventuali condizioni particolari in cui deve trovarsi il richiedente un titolo edilizio, per evitare che la destinazione urbanistica di una singola zona possa essere facilmente elusa.
Tale esigenza è rilevabile ogniqualvolta lo strumento urbanistico consenta la realizzazione di manufatti che non abbiano, oggettivamente, una destinazione univoca, così che la conformità alla destinazione urbanistica venga in definitiva a dipendere dal tipo di attività cui i manufatti sono asserviti.
Di conseguenza, il fatto che uno strumento urbanistico imponga in zona agricola come condizione per la realizzazione di un edificio residenziale il possesso del titolo di imprenditore agricolo, non possono rendere illegittime le relative NTA (norme tecniche attuative).
Come precisato nel ricorso, l’appellante sosteneva di potere accedere alla sanzione pecuniaria, in luogo di quella demolitoria, perché la demolizione delle opere abusive non sarebbe stata possibile senza arrecare pregiudizio a quelle già legittimamente realizzate.
Il Consiglio di Stato, nel respingere tale censura ha osservato sul punto che l’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001, alla luce della giurisprudenza della Sezione (cfr. Cons. Stato, Sez. VI n. 4418 del 20 luglio 2018), è applicabile solo per gli abusi meno gravi, riferibili all’ipotesi della parziale difformità dal titolo abilitativo e dell’annullamento del permesso di costruire.
Diversamente aderendo alla tesi dell’appellante, nel caso di interventi eseguiti in assenza di permesso di costruire, in totale difformità o con variazioni essenziali, la sanzione della demolizione e della riduzione in pristino rimane l’unica applicabile, quale strumento per garantire l’equilibrio urbanistico violato. Per altro, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall’amministrazione nella fase esecutiva del procedimento, che è successiva ed autonoma rispetto a quella che sfocia nell’ordine di demolizione.
È in sede esecutiva, dunque, che la parte interessata può far valere la situazione di pericolo eventualmente derivante dall’esecuzione della demolizione delle parti abusive di un immobile.
L’impossibilità a demolire i manufatti abusivi, che consente di accedere alla c.d. fiscalizzazione, deve avere natura oggettiva, e non deve manifestarsi come semplice difficoltà che possa essere superata con l’adozione di particolari accorgimenti, per quanto costosi.
Nel caso in esame, le difformità del fabbricato residenziale rispetto al progetto licenziato appaiono di indubbia consistenza, e quindi, sicuramente l’appellante non può accedere alla c.d. “fiscalizzazione” della sanzione, ai sensi dell’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001.
Peraltro, non v’è prova che l’appellante, per la limitata portata delle difformità versi in condizione di poter accedere alla “fiscalizzazione” dell’abuso; peraltro, seppure fosse il caso, l’omessa disamina di tale questione non inficia la legittimità dell’ordinanza di demolizione.
In conclusione, tali specifiche circostanze hanno indotto il Giudice di secondo grado a respingere l’appello, confermando sia la legittimità dell’ordine di demolizione delle opere, con ripristino dello status quo ante e l’impossibilità di accedere alla sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, che del diniego di sanatoria, fondato sulla constatazione che l’appellante non è titolare di alcuna impresa agricola.